04 novembre 2025

 

1. Storia dell’Ecologia e degli Ecologisti. Precursori antichissimi: medici, poeti, scienziati, filosofi, utopisti.

 1. STORIA DELL’ECOLOGIA E DEGLI ECOLOGISTI.  GLI UTOPISTI DELLA NATURA

COME L’ITALIA S’È TINTA DI VERDE

Ora che tutti parlano di loro, gli ambientalisti si domandano: «Chi eravamo? Da dove veniamo?». Ecco la prima cronistoria

Nico Valerio
Scienza 2000, novembre 1988

Perfino gli anarchi­ci, beati loro, han­no Bakunin, un maturo signore che possiamo immaginare con una prestigiosa barba bianca. E i verdi? Possibile che siano nati ieri, che non possano vantare uno straccio di an­tenato carismatico, almeno un nonno precursore che abbia combattuto qualche battaglia ecologica sulle sponde della Beresina, meglio se già inquinata da sali di cromo e mercurio, e con moria di lucci evidente?

No, per fortuna di naturalisti, conservazionisti, zoo­fili, naturisti, agrobiologi, naturopati, igienisti, vege­tariani, anticonsumisti, energologi, nudisti, e di chis­sà quanti altri gruppi, il ramificatissimo albero verde è dotato di radici profonde. E che radici! Basta con­siderare che tra i primi «ecologisti» ante litteram pos­siamo contare anche Platone, Catone, Lucrezio [De Rerum Natura, ovvero la sostanza e forma delle cose], Co­lumella, visto che esortavano già allora Greci e Ro­mani a «tornare alla natura», a vivere e a nutrirsi in modo più parco, e perfino a non tagliarsi né boschi né barbe.

E Ippocrate? È il padre di quella medicina scientifica (basta con gli Dei causa di tutto) natura­le che è giunta fino a noi. Senza contare i grandi naturalisti, da Plinio a Dioscoride. Del resto, l'inquina­mento idrico, atmosferico e acustico in Roma, Atene e Alessandria d'Egitto era spesso oggetto di denun­ce, scioperi e sollevazioni popolari. I cittadini roma­ni, per non essere arrotati mentre camminavano ne­gli stretti vicoli, imposero addirittura il divieto di tran­sito nelle ore diurne e nei giorni festivi per i grossi carri. Ma poi crearono comitati di agitazione perché durante la notte non riuscivano a chiudere occhio a causa del traffico. Gruppuscoli verdi protestavano tra le Pira­midi e nel Ponto, sempre per motivi ambientali.

Curiosa, anche per quei tempi, la reazione dei «fon­damentalisti» verdi dell'epoca ellenistica al dilagante consumismo: la setta estremista degli Adamiti se ne andava in giro in perenne nudità, ostentando provo­catoriamente povertà e umiltà, sostenendosi con un pugno di erbe selvatiche, come più tardi gli Stiliti. Attenzione a questo strano elemento della nudità: lo ritroveremo molto spesso, lungo tutta la storia del mo­vimento. Dall'Oriente si era già diffusa la moda esoterica di disprezzare il lusso. Nelle antiche scritture dei Veda, seguite in Oriente dalla maggior parte del popolo, il rispetto per gli animali e il vegetarismo so­no i mezzi naturali per elevarsi spiritualmente fino alla divinità. Soprattutto i nobili e i sacerdoti indù non mangiavano carne, proprio come in Occidente inse­gnava Pitagora.

Da noi, però, c'erano già degli stra­vaganti hippies naturisti per le strade. La figura del vegetariano seguace di Brahma, nudo perché spregiava l'uso dei vestiti (dimostrando che era possibile vivere di niente) era popolare in Grecia e a Roma fin dal IV secolo a.C. La gente li chiamava «gimnosofisti». Così ricorda Calano, un gimnosofista che segue Alessan­dro Magno in Asia. 

Che dietologi alla Città del Sole! 

Troppo lontano nel tempo? E va bene, accenneremo allora alla grande crisi ecologica dell'anno 1000 e alla massiccia distruzione di foreste in Europa, a cau­sa dell'urbanesimo e della costruzione di navi, e al ri­fiuto dell'antropocentrismo dominante, che conside­rava l'uomo il signore assoluto della natura, da parte del monaco Francesco di Assisi, verso il 1200; lo stesso che, come i bonzi zoofili del Buddismo e del Giaini­smo, arriva a chiamare «fratelli» gli animali, le pian­te, l'acqua, la terra. Saltando a pie' pari le preoccu­pazioni ecologiche del Rinascimento, risolte d'auto­rità da prìncipi e dogi (gli acquitrini della Padania tra­sformati nelle prime risaie dagli Sforza di Milano e dal duca di Ferrara; le barene protette allestite dal governo di Venezia in Laguna) e i molti pru­riti botanici ed erbo­ristici dell'intellighen­zia alto-ambientali­sta, arriviamo al '600 e cominciamo ad in­travedere i primi veri trisavoli degli attuali ecologisti.

Londra sul finire del '600 è già maleo­dorante e inquinata dal fumo di carbone e dai liquami di fogna a cielo aperto. Che propone John Eve­lyn, segretario della Royal Society? Va da re Carlo II e lo invita a circondare Londra con una cintura di piante verdi e odoro­se, per purificare l'a­ria e ricostituire il patrimonio forestale che in Inghilterra è ormai distrutto. Non se ne fece nulla, per l'opposizione degli scienziati «utilitaristi» che, sem­plicemente, non credevano all'inquinamento. L'aria, la terra e l'acqua - dicevano - sono beni illimitati. Pochi anni prima, nell'utopistica Città del Sole imma­ginata da Tommaso Campanella (1623), la vita della città ideale si svolgeva con ritmi e sensibilità da comu­nità della California negli anni '60.

«Essi mangiano carne, butiri, mele, cascio, dattili, erbe di­verse, e prima non voleva uccidere gli animali, parendo cru­deltà. Ma poi vedendo che era crudeltà ammazzar l'erbe, che han senso, onde bisognava morire, consideraro che le cose ignobili son fatte per le nobili, e magnano ogni cosa. Non però uccidono volentieri !'animali fruttuosi, come bovi e ca­valli. Hanno però distinti li cibi utili dalli disutili, e secondo la medicina si servono; una fiata magnano carne, una pesce et una erbe, e poi tornano ala carne per circolo, per non gra­vare né estenuare la natura...»

Una ciminiera che sparge fumo per tutta la valle fa pronunciare parole di fuoco sugli effetti dell'industrialismo al giovane Jean-Jacques Rousseau, il pri­mo «teorico» del naturismo moderno. «Promeneur solitaire», escursionista e grande innamorato della na­tura, inventore del mito del «buon selvaggio», Rous­seau affida alla spontaneità e alla libertà l'educazio­ne dei giovani (Emile, 1762). Vivere nella natura e secondo le leggi naturali, questo è il dovere dell'uomo libero. L'idea che la natura sia qualcosa di finito e che quindi vada ammini­strata con saggezza, non sfruttata illimitatamente, tro­va le sue basi scientifiche nelle ricerche del naturali­sta Charles Darwin, padre dell'evoluzionismo, e nei suoi continuatori (Thomas Huxley, ecc). L'Origine della specie (1859) mostra 1'interrelazione esistente tra uomo, piante, animali e ambiente, tanto che nel 1866 il biologo tedesco E. Haeckel può inventare il termi­ne «ecologia» (da oikos, casa, e logos, scienza) come quella branca della storia naturale che si occupa dell'habitat. Malthus (1859) dimo­stra che gli uomini si moltiplicano in scala geometrica, mentre le risorse alimentari si moltiplicano soltanto in scala aritmetica: di qui la "struggle for !i­fe", la lotta per la vita darwiniana.

Quella capanna nel bosco di Walden

L'industrialismo, la civiltà delle mac­chine, la fede cieca e ingenua nel continuo accrescimento produttivo sono ora al­l'apice. Le reazioni non tardano a farsi sentire. I lavoratori minacciati dalla concorrenza delle mac­chine si rivoltano a Nottingham, dal 1811 al 1816, ripetendo le gesta di Ned Lud che nel 1779 aveva infranto un telaio che lo condannava alla disoccupazione («luddismo»). Ma ol­tre a quelli corporativi ci sono altri interessi: la gente protesta per l'ambiente disumano e la qualità pessi­ma della vita. Dalla fine dell'800 al primo decennio del '900, in Europa e in America, cresce l'opposizio­ne popolare contro l'urbanesimo, l'aggressività della civiltà metropolitana, la vita innaturale e insalubre, gli eccessi della meccanica e della chimica, l'inquina­mento, le fabbriche in genere, il lusso, la distruzione della natura. In questo clima di rivolta morale e di rifondazione («riforma») della vita si delinea a poco a poco, sulla falsariga degli insegnamenti dei saggi del­l'Antichità mai dimenticati, una vera e propria nuova filosofia pratica, una sorta di movimento di libera­zione dall'Innaturale e dall'Artificiale: il Naturismo.

Come definire il Naturismo? Il Dizionario Enciclo­pedico Italiano, molto riduttivamente, lo presenta così: «Movimento formatosi fra la fine dei sec.19° e il prin­cipio del 20° come reazione agli eccessi della civiltà meccanica e urbanistica: esso tende a un ritorno del­l'uomo alle sorgenti naturali di vita semplice e schiet­ta, attraverso un tipo di alimentazione prevalentemen­te vegetale, l'immediato contatto con la natura, la sem­plificazione del vestiario fino alla sua totale soppres­sione». Insomma, un ritorno catartico ad uno stato quasi primordiale, ad una vita secondo cicli ed equi­libri naturali, alla semplicità, al lavoro manuale a mi­sura d'uomo, all'autosufficienza, ai cibi e alle medi­cine offerti dalla natura. Agli occhi dei cittadini inte­grati era un vivere «da selvaggi», se non «da anima­li». E proprio «selvaggi» vollero essere chiamati que­sti ribelli capaci di abbandonare gli agi d'una residenza borghese per costruirsi capanne di tronchi nei boschi. Viene in mente l'epiteto di «cinici» dato ai filosofi greci che vivevano «come cani» (kin).

Il più famoso dei naturisti dell'800 fu il romantico vagabondo Henry David Thoreau, intellettuale e naturalista americano (1817-1862) che non adorava nes­sun Dio tranne la Natura. Si costruì una capanna sulle rive del lago Walden, vicino Concord (Massachusetts), e lì visse dal '45 al '47 scrivendo una sorta di auto­biografia morale. Nel 1849 teorizza la «disobbedien­za civile» non violenta contro uno Stato «ingiusto e violento». Al suo esempio si ispirò un secolo dopo il Mahatma Gandhi, anch'egli vegetariano, che con la Ahimsha (non violenza) e la Satiahgraha (insistenza per la verità) si adoperò per far recuparare agli Indiani non solo l'indipendenza ma anche il giusto rapporto con la natura e l'igiene naturale, tanto da scrivere ve­ri e propri manuali di alimentazione sana. Anche lo scrittore Leone Tolstoi, verso il 1885 diventa zoofilo e non violento, seguito dal medico filantropo Albert Schweitzer (Nobel per la pace 1952) e dal dramma­turgo George Bernard Shaw, vissuto da igienista fino a 94 anni nonostante il parere dei suoi medici.

Nel frattempo in Europa si assiste alla rinascita del corpo e alla riscoperta del salutismo naturista. I dottori Kock, Zimmermann e Pudor, Hoppener e Ungewitter, Diefenbach, Suren e Seitz, tutti nati verso il 1850-1870, teorizzano e diffondono la nudità del corpo come con­dizione naturale detl'uomo, benefica e liberatoria. Il pri­mo club nudista pubblico sarà inaugurato nel parco di Klingberg (Germania) nel 1903. Nascono a decine, ovun­que, associazioni di «appassionati della luce e del sole» (Lichtbund), in cui uomini donne e bambini recupera­no la corporeità primigenia nella natura libera. Solo l'av­vento del nazismo riuscirà a far tacere i naturisti. Pri­ma della dittatura si contavano in Germania oltre 100 mila terapeuti naturisti, che curavano con l'acqua, il sole, l'aria, il cibo, le erbe, ecc. Arnold Rikli, mitteleuropeo mezzo italiano (visse a Trieste), divenne un terapeuta na­turista di successo con il suo sanatorio elioterapico di Veldes (1865). Priessnitz e l'abate Kneipp, curavano con l'acqua, dando origine a una riscoperta dell'antica idro­terapia che dura tuttora. 

NICO VALERIO  (continua)


 

2. Storia dell’Ecologia e degli Ecologisti. La Natura nella società di massa: i club, i movimenti, la politica.

 

MOVIMENTO ECOLOGICO, SOCIETA’ E POLITICA  

   IL “SOLE CHE RIDE” E LA COSCIENZA ECOLOGICA

La necessità di difendere il nostro pianeta diventa una consapevolezza radicata in tutte le nazion

Nico Valerio
Scienza Duemila, novembre 1988

Per iniziativa dello studioso naturalista, montanaro e politico liberale Quintino Sella, fondatore dei Lincei e poi Ministro severissimo delle Finanze, nel 1863 nasce il Club Alpino italiano, che unisce gli amanti della montagna. Nel 1900 nasce in Germania il movimento dei Wandervogel (oggi diremmo globetrotters), che iniziano l'uso delle escursioni naturalistiche a piedi con tenda e sacco in spalla. E guai, ovviamente, a strappare un fiore o a catturare un animale. Il '900 si apre sotto un buon segno: vengono fondate molte società vegetariane da parte di zoofili e naturisti anglosassoni. Nel 1908 nasce l'Unione Vegetariana internazionale. I tempi, finalmente, sono maturi per mettere in pratica un modello di vita alternativo, totalmente sano e naturale. 

Ecco nascere sul monte Monesca («monte Verità»), vicino ad Ascona nella Svizzera del Canton Ticino, la comunità naturista Casa Anatta, che dal 1900 al 1920 fu il più curioso e variegato covo di spiriti liberi che l'Eu¬ropa avesse mai avuto, ad un tempo casa, scuo¬la, laboratorio d'arte, centro di applicazioni ar-tigiane, stazione agricola sperimentale, ecc. Il ricco mecenate Rudolf von Laban finanzia una casa in cui vivono o sono di passaggio Hermann Hesse, Isadora Duncan, Walter Gropius, Rudolf Steiner, Gustav Jung, R.M. Rilke e molti altri noti personaggi. Agricoltura naturale, yoga, terapie dolci, alimentazione naturale, danza e ginnastica euritmica, pacifismo, nudismo, ecc., sono le materie di questa singolare e fortunata scuola di vita. 

La medicina naturale, intanto, fa progressi. Il Naturismo, in medicina, come si è visto con Rikli e Kneipp, è quella «corrente che riconosce alla Natura la capacità di sanare i morbi (vis medicatrix naturae) e tende a rinchiudere la terapia negli angusti limiti di una funzione ausiliaria delle difese naturali. 

Il Naturismo ha origini antichissime e in Ippocrate il suo massimo esponente» (Diz. Enc. It. citato). Il medico Paul Carton in Francia e il medico Max Bircher Benner in Svizzera, nella prima metà di questo secolo, devono contrastare l'opposizione della medicina ufficiale alle loro terapie fondate sull'alimentazione, il digiuno e le erbe. Carton conduce una dura battaglia contro i «tre alimenti as¬sassini»: carne, zucchero e alcol. Il crudismo e l'uso preventivo e terapeutico di frutta e verdura fresche si impongono nella dietologia. In Italia, i medici naturisti Arnaldi, Paoletti, Piccoli ed Her¬mann divulgano e praticano la medicina ippo¬cratica. 

La pedagogia alternativa fa tesoro di Rousseau, di Steiner e della riscoperta del corpo. Nel 1927 viene aperta a Glusinger (Germania) una scuola media con classi miste di maschi e femmine, basata sull'iniziativa e creatività degli allievi, e sul naturismo (ginnastica, agricoltura naturale, cibo sano, vita all'aria aperta, nudismo). Nello stesso anno, però, fallisce per motivi finanziari una analoga iniziativa organizzata a Bacon (Inghilterra) dal filosofo Bertrand Russell. 

L'altro settore del Naturismo, quello naturalistico e conservazionista, aveva compiuto faticosi passi in avanti. È del 1872 l'istituzione del primo vero parco nazionale al mondo, a Yellowstone (Stati Uniti), «per il beneficio e il godimento delle future generazioni». Man and nature (sottotitolo: La geografia fisica modificata dall'azione dell'uomo), opera fondamentale del «movimento di conservazione delle xisorse naturali», esce a firma di George Perkins Marsh nel 1864. A Parigi nel 1895 si tiene un congresso di ornitologi per decidere quali specie sono da proteggere. Tre anni dopo il presidente del Sud Africa Paul Druger crea la riserva Sabie Game, che nel 1926 diventerà il Kruger National Park. Nel 1901 a Berlino zoologi e zoofili decidono di «proteggere tutti gli animali superiori considerati inoffensivi e minacciati di estinzione dall'estendersi delle colture». Nel 1900 il governo inglese promuove un convegno tra le colonie africane per proteggere fauna e flora del continente nero. 

In grande stile, il Presidente degli Usa Theodore Roosevelt lancia nel 1908 «la prima campagna di conservazione delle risorse forestali, idriche e naturali d'America». Nel 1910 lo zoologo svizzero Paul Sarasin propone al Congresso di zoologia di Graz (Austria) la creazione di un organismo internazionale per la protezione della natura, che viene costituito nel 1913, poi sciolto per gli eventi bellici, poi riproposto dal governo di Parigi nel 1923 e finalmente costituito nel 1928 come Ufficio centrale di coordinamento per la protezione. Nel 1935 diventa l'Ufficio internazionale per la protezione della natura (sede a Basilea). Nel 1947 Sir Julian Huxley, naturalista e direttore generale dell'Unesco, organizza la conferenza di Brunnen (Svizzera) che si conclude con la costituzione di una Unione provvisoria, finché la definitiva Unesco conservazionista è creata il 5 ottobre 1948 a Fontainebleu. È l'Uipn (Unione internazionale per la protezione della natura) che ha lo scopo di «promuovere o ap-poggiare azioni destinate ad assicurare il perpetuarsi della natura selvaggia e delle risorse naturali su base, mondiale». Nel 1956 l'Uipn sostituisce il termine «protezione» con «conservazione», e diventa l'Uicn che esiste tuttora. 

In Italia, sull'esempio della Ligue Suisse pour la Protection de la Nature (1909), nascono a Bologna nel 1913 l'Associazione nazionale per i paesaggi d'Italia, e a Roma nel 1914 1a Lega per la protezione dei monumenti naturali, promossa dalla Società Botanica Italiana. A Bologna in quegli anni sorge anche la Società emiliana Pro Montibus et Sylvis, che anni dopo compie la prima inchiesta sulla fauna italiana e prende in affitto la Camosciara (2 ottobre 1921), primo nucleo del Parco Nazionale d'Abruzzo costituito nel 1922 anche per gli auspici di Benedetto Croce. La prima Commissione di studio per la conservazione della natura è istituita presso il Cnr nel gennaio del 1951. Nell'ottobre 1959 è fondata la Pro Natura Italica (che oggi si chiama Federnatura), come federazione tra le associazioni. 

Italia Nostra nasce nel 1956: è un'associazione privata che intende tutelare il patrimonio storico, ar-tistico e naturale della nazione. Gli anni '60 segnano il momento della rinascita economica dei paesi europei duramente provati dal¬la guerra. Il «boom» miete vittime anche nell'ambiente naturale e, come accade nell'800 dopo la prima rivoluzione industriale, si tenta di correre ai ripari. Questo spiega il proliferare di iniziative ambientaliste e naturiste a partire dal 1960. L'agricoltura chimica del «benessere» uccide non solo gli insetti ma anche gli uccelli: ecco perché c'è da attendersi prima o poi una allucinante Primavera silenziosa. 

Questo è il titolo del primo libro-denuncia sull'avvelenamento delle campagne causato dall'uso degli insetticidi. Esce nel 1962 negli Stati Uniti e la sua autrice, Rachel Carson, diventa famosa. L'anno dopo la paura dei rischi dell'atomo porta alla firma dell'accordo Usa-Urss che vieta le esplosioni nucleari nell'atmosfera. Per fiancheggiare l'Uicn, di cui abbiamo ripercorso la nascita travagliata, nel 1961 viene fondato a Ginevra il fondo mondiale per la vita selvaggia (World Wildlife Fund) che aprirà una sede in Italia nel 1966. Nel 1965 in Italia è creata la Lega contro la distruzione degli uccelli, trasformata nel 1965 in Lega italiana per la protezione degli uccelli. Fa scalpore, l'anno dopo, la dichiarazione congiunta di più di 2000 scienziati a Mentone sullo stato dell'ambiente e sui rimedi da proporre (1971), mentre nel 1972 a Stoccolma si tiene un'importante conferenza dell'Onu sull'environment, e in Italia la società Tecneco consegna alle autorità e alla stampa un allarman¬te rapporto scientifico sui mali ambientali dell'Italia. 

Ma il colpo di frusta all'opinione pubblica e soprattutto ai giovani di tutta Europa lo dà l'insperata vit¬toria elettorale dell'agronomo francese René Dumont, primo candidato «verde» della storia, alle elezioni cantonali in Francia (1974). Gli ambientalisti cominciano a «fare politica». In Italia, però, tutto tace. La situazione culturale in Italia nel 1975-76, riguardo ai temi ambientali, è molto arretrata. Italia Nostra, che è piena di architetti, si occupa in pratica so¬lo di rosoni romanico-gotici e tutt'al più urbanistici. Il WWF pensa solo al panda, l'esotico orsetto simbolo, e a qualche piccola oasi che gestisce direttamente. Il resto è deserto. Tra i sindacati e i partiti si ha la certezza che la caccia sia un diritto costituzionale, l'ecologia un futile "lusso borghese in contrasto con l'occupazione" (dichiarazioni ripetute di Cgil-Cisl-Uil e del Pci), l'energia nucleare è "pulita e sicurissima". 

Ci penserà la piccola Lega Naturista, fondata a Roma nel giugno 1976, a proporre per prima all'opinione pubblica italiana, utilizzando il metodo delle «azioni esemplari» appreso dal partito radicale, il «no» alla caccia (sta nel suo Statuto il Referendum per l'abolizione della Caccia), il «no» agli zoo (Zoo di Roma, agosto 1976) e il «sì» all'alimentazione naturale, ai cereali integrali, alla prevalenza a tavola di verdura, frutta e legumi (come nell'Antichità), alle medicine naturali solo se efficaci. La LENA vuole infatti recuperare, per la prima volta in Europa, tutti i temi originariamente naturisti che ora sono diventati vessillo di conservazionisti ed ecologisti. Il Naturismo - dicono gli esponenti della Lega - si occupa di tutti gli aspetti della vita quotidiana, non solo del benessere fisico dell'uomo. La Lega Naturista influenza ed educa con i suoi dati scientifici tutti i futuri Verdi. Dalla Lega germinano due gruppi animalisti destinati ad avere successo: la Lega per l'abolizione della caccia (1978) e la Lega per i diritti dell'animale (1979). 

La Lac, condotta dallo zoologo Carlo Consiglio, secondo iscritto della Lega Naturista, indice due referendum nazionali abolizionisti (più vari referendum locali), riuscendo a coalizzare tutto il movimento. Il suo ufficio legale ha molto da fare: opposizione ai calendari venatori, denunce per l'uccellagione, difesa dagli attacchi dei cacciatori (1982) del «decreto Spadolini» che accoglie in Italia la direttiva protezionista per 12 specie di piccoli uccelli, ricorsi al Tar, azioni dirette non violente (reti e lacci illegali, ecc). La Lida con Laura Girardello si specializza nella diffusione della «Carta europea dei diritti degli animali», nella lotta alla corrida, ai giochi circensi, ai combattimenti, agli allevamenti intensivi e ad altre forme di crudeltà verso gli animali. 

Il gruppo animalista più radicale, sia nel tipo di proposte che per i metodi spettacolari scelti, è però la Lega anti-vivisezione, succeduta alla Uai e coordinata da Alberto Pontillo dalla fondazione (1977). Famose le sue campagne di informazione che rivelano agli italiani, per la prima volta, i raccapriccianti documenti della violenza sadica agli animali di laboratorio. L'appassionata denuncia di Hans Ruesch nel libro L'imperatrice nuda solleva un'ondata di indignazione contro gli inutili esperimenti sugli animali. Ma nel 1978 scoppia la questione nucleare. 

A Montalto di Castro la grande manifestazione contro l'atomo organizzata da Nicola Caracciolo (Amici della Maremma) e dal Comitato per le scelte energetiche (Gianni Mattioli e Massimo Scalia) vede per la prima volta una grande partecipazione di popolo, ma anche due gruppi di «infiltrati»: quello colorato e giocoso («indiani metropolitani») e quello inquietante dei teorici della violenza (gli «autonomi»). Sulla spinta degli animalisti ultrà e dei naturisti, anche il WWF si modernizza e affronta i temi nuovi, con un aplomb di stile anglosassone molto raro in Italia. Condotto da Fulco Pratesi, il WWF italiano continua l'impegno conservazionista ed ecologico (oasi, zone protette direttamente gestite, lobbing sulla classe politica), che lo caratterizza come il primo e più scientifico tra i gruppi ambientalisti italiani; ma scoprendo il suo segreto lato «naturista» diventa dichiaratamente anti-caccia e anti-nucleare (anni '80), dimenticando l'aurea neutralità ecologica degli anni '70. Oggi il WWF ha in programma perfino l'agricoltura biologica e la fitoterapia. Non ama, è vero, le azioni spettacolari e un po' cinematografiche alla Green peace, ma può vantare risultati concreti, come quello di aver salvato l'orso marsicano e il lupo appenninico. 

Nato per l'unificazione di due gruppi canadesi che protestavano con azioni alla Rocambole contro gli esperimenti nucleari a Mururoa, nel 1971, Greenpeace internazionale è stato managerialmente coordinato da David Mac Taggart. Le sue azioni esemplari (con una vera e propria flotta di piccoli yacht) hanno molto rilievo sulla stampa e in televisione. Il mare (balene, cuccioli di foca, scorie e rifiuti radioattivi nel North Sea) è al centro degli interessi di questo ricchissimo e un poco misterioso gruppo ambientalista che dall'83 ha un coordinamento generale in Gran Bretagna e dalla fine dell'86 ha una sede anche in Italia (direttore generale: Gianni Squitieri). 

Di provenienza politica, più legati agli aspetti pubblici e sociali dell'ambientalismo, soprattut¬to centrali nucleari ed energia - al momento della fondazione (1977) la denominazione del gruppo era Lega per l'energia alternativa e la lotta antinucleare - gli Amici della Terra, sede italiana dei Friends of Earth inglesi, sono retti per anni da Mario Signorino e Rosa Filippini. Di area radicale, negli ultimi tempi hanno preso le distanze dal partito di origine, alla ricerca di una loro autonomia operativa e scientifica. 

Ultima nata, infine, fondata nel 1980 tra iscritti dell'Arci, l'associazione def tempo libero vicina al Pci e in minor misura al Psi, è la Lega per l'ambiente, accusata di aver «dipinto di verde la barba di Marx» e di essere condotta come un pic¬colo partito politico di sinistra. E' però dotata di un buon consiglio scientifico. Inquinamento, educazio¬ne merceologica e diritti del cittadino, sono al centro dell'attività divulgativa della Lega, che ultimamente sta cercando una sua autonomia dalla sinistra tradi¬zionale. 

Il resto è cronaca d'oggi, con i «Verdi» in Parlamento, e il simbolo del «Sole che ride» nei consigli comunali, provinciali e regionali di tutta Italia, in rappresentanza del variegato «arcipelago verde» di club, leghe e associazioni, che li ha candidati e fatti eleggere. Ma avranno l'umiltà di riandare indietro nel tempo - magari con l'aiuto della nostra rievocazione storica - fino alle avventurose origini di quella che un marziano potrebbe scambiare per un'esoterica «setta di adoratori del Sole?» 

Nico Valerio

30 settembre 2019

 

CO2 cibo per le piante non inquinante, alza così poco le temperature? Alcuni scienziati: no all’allarmismo.


Nessuno può negare che le emissioni di anidride carbonica CO2 nell’atmosfera sono in ripida ascesa, specialmente negli ultimi decenni, come mostra il grafico accanto, che evidenzia anche un inquietante innalzamento a campanile della curva dopo il 2000 E così, per prima cosa, sorge spontanea una domanda: ma che cosa abbiamo fatto noi umani di così strano da emettere così tanti gas serra, e proprio dopo il 2000, un periodo di crisi economica per molti Paesi? In ogni caso, qualunque sia la sua origine, questa anomalia solo per il fatto di essere nuova in tempi moderni, non può non preoccupare.
      Le enormi emissioni di CO2 che abbiamo avuto negli ultimi decenni sono state collegate più o meno correttamente a fenomeni macroscopici come El Nino, tornado, inondazioni, eruzioni di vulcani, scioglimento di ghiacciai (nonostante che eventi simili si siano già verificati in passato secondo cicli pluri-millenari); a cui si sono aggiunte attività umane grandi produttrici di CO2 o metano, come incremento del traffico aereo, sviluppo industriale vorticoso e senza regole in Asia, allevamenti animali intensivi ecc.
      Ma, allora, se l’aumento di CO2 in pieno “effetto serra” è davvero la causa dominante del riscaldamento globale, che a sua volta sembra favorirlo, come mai – si chiede il largo pubblico e perfino più d’uno scienziato – tali eventi disastrosi hanno avuto modeste conseguenze sul piano statistico generale, cioè un aumento della temperatura media della Terra di “appena” 0,8°C dal 1850 a oggi, ben poco se lo paragoniamo all’innalzamento della CO2? Se lo chiede con noi anche New Ice Age
      Nonostante il nome "Riscaldamento globale", paradossalmente non c’è stato il previsto proporzionale innalzamento della temperatura media, che è tuttora modesto e in linea con i picchi dei cicli freddo-caldo del passato. Si direbbe che il ritardo tra le due curve è notevole: centenario o millenario?.
      Dopo tutto quello che è successo, che altro deve accadere o dobbiamo fare perché davvero si verifichi il Riscaldamento globale più temuto dagli statistici? La Terra trova forse il modo di compensare e riequilibrare? Ci sono “ritardi” secolari o millenari?
      “Dal 2000 gli esseri umani hanno emesso il 30% in più di CO2 totale; eppure nulla di disastroso, anzi di statisticamente significativo si è osservato sul riscaldamento”, come se la CO2 non avesse alcun effetto anormale sulla temperatura globale, ha notato anche la studiosa australiana Jo Nova. Secondo il Centro che studia in specifico le emissioni di carbonio (CDIAC) e il Dipartimento per l’energia del Sistema Ambientale Americano, continua New Ace Age, “Dal 1751 circa 337 miliardi di tonnellate di carbonio sono stati rilasciati nell’atmosfera dal consumo di combustibili fossili e la produzione di cemento. La metà di queste emissioni sono verificate dal 1970, e il 30% di queste durante l’evento record El Nino del 1997/1998 . Non vi è alcuna indicazione che tutta questa CO2  stia producendo un riscaldamento globale”.
      Insomma, la teoria che la CO2 sia strettamente e immediatamente collegata all’aumento della temperatura media sulla Terra e che in tema di anomalie climatiche e riscaldamento globale ci aspettino eventi ancora più drammatici di quelli disastrosi già verificatisi, sembra fare acqua da tutte le parti, probabilmente perché non tiene conto della marcata ciclicità millenaria di tali eventi (v. grafico degli ultimi 11 mila anni, qui accanto) e di concause naturali, cioè astronomiche (anomalie dell’insolazione terrestre, dicono gli astronomi), e rischia perciò di assumere quasi il carattere di una “verità” religiosa.
      In realtà è vero che la curva della CO2 non è in fase temporale con quella della temperatura, come si legge in un sito Usa di divulgazione scientifica critica. Quando la Terra esce da un periodo glaciale ed entra in uno interglaciale, com’è il nostro caso, il riscaldamento non è provocato dalla CO2, ma da fenomeni tipicamente astronomici, come i cambiamenti dell’orbita terrestre. Questi periodi interglaciali si verificano ogni 100 mila anni, e il meccanismo di rotazione della Terra e il Sole stesso vi hanno una grande importanza.
      Il ciclo, chiamato di Milankovitch, è provocato da notevoli variazioni dell’insolazione dovuti a ben tre tipi di cambiamenti dell’orbita terrestre: forma dell’orbita che da ellittica può diventare più circolare (eccentricità), cambiamento di inclinazione dell’asse terrestre (obliquità), spostamento dell’asse dal Polo nord al Polo eclittico (precessione climatica) come riferisce l’astronomo E. Antonello dell’Osservatorio di Brera 
      A questo punto, il riscaldamento della Terra dovuto alle anomalie dette riguardo all’angolazione dei raggi solari, fa sì che le profondità degli oceani rilascino CO2, la quale a sua volta amplifica il riscaldamento e diffondendosi in tutta la atmosfera fa riscaldare tutto il pianeta. Quindi in tal modo indiretto la CO2 causa riscaldamento, ma poi l’aumento stesso di temperatura provoca la crescita della CO2.
      Perciò cause naturali oltreché umane. E' quello che vogliono sottolineare alcuni studiosi che hanno cominciato a stilare dichiarazioni di dubbio o dissenso con le tesi prevalenti tra i climatologi, come quella  dei 90 scienziati italiani e dei 500 studiosi di tutto il Mondo.
      Una petizione sul “Riscaldamento Globale Antropico”, non solo di principi generali ma insolitamente argomentata con dettagli scientifici, è stata indirizzata alle Autorità della Repubblica da circa 90 scienziati italiani il 4 giugno 2019, proprio alla vigilia del discorso della giovane Greta Thumberg all’ONU:

PETIZIONE SUL RISCALDAMENTO GLOBALE ANTROPICO
I sottoscritti, cittadini e uomini di scienza, rivolgono un caloroso invito ai responsabili politici affinché siano adottate politiche di protezione dell’ambiente coerenti con le conoscenze scientifiche. In particolare, è urgente combattere l’inquinamento ove esso si presenti, secondo le indicazioni della scienza migliore. A tale proposito è deplorevole il ritardo con cui viene utilizzato il patrimonio di conoscenze messe a disposizione dal mondo della ricerca e destinate alla riduzione delle emissioni antropiche inquinanti diffusamente presenti nei sistemi ambientali sia continentali che marini.
      Bisogna però essere consapevoli che l’anidride carbonica di per sé non è un agente inquinante. Al contrario essa è indispensabile per la vita sul nostro pianeta. Negli ultimi decenni si è diffusa una tesi secondo la quale il riscaldamento della superficie terrestre di circa 0.9°C osservato a partire dal 1850 sarebbe anomalo e causato esclusivamente dalle attività antropiche, in particolare dalle immissioni in atmosfera di CO2 proveniente dall’utilizzo dei combustibili fossili. Questa è la tesi del riscaldamento globale antropico promossa dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), agenzia delle Nazione Unite, le cui conseguenze sarebbero modificazioni ambientali così gravi da paventare enormi danni in un imminente futuro, a meno che drastiche e costose misure di mitigazione non vengano immediatamente adottate. A tale proposito, numerose nazioni del mondo hanno aderito a programmi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica e sono pressate, anche da una martellante propaganda, ad adottare programmi sempre più esigenti dalla cui attuazione, che comporta pesanti oneri sulle economie dei singoli Stati aderenti, dipenderebbe il controllo del clima e, quindi, la “salvezza” del pianeta.
      L’origine antropica del riscaldamento globale è però una congettura non dimostrata, dedotta solo da alcuni modelli climatici, cioè complessi programmi al computer, chiamati General Circulation Models. Al contrario, la letteratura scientifica ha messo sempre più in evidenza l’esistenza di una variabilità climatica naturale che i modelli non sono in grado di riprodurre. Tale variabilità naturale spiega una parte consistente del riscaldamento globale osservato dal 1850. La responsabilità antropica del cambiamento climatico osservato nell’ultimo secolo è quindi ingiustificatamente esagerata e le previsioni catastrofiche non sono realistiche.
      Il clima è il sistema più complesso presente sul nostro pianeta, per cui occorre affrontarlo con metodi adeguati e coerenti al suo livello di complessità. I modelli di simulazione climatica non riproducono la variabilità naturale osservata del clima e, in modo particolare, non ricostruiscono i periodi caldi degli ultimi 10.000 anni. Questi si sono ripetuti ogni mille anni circa e includono il ben noto Periodo Caldo Medioevale, il Periodo Caldo Romano, ed in genere ampi periodi caldi durante l’Ottimo dell’Olocene. Questi periodi del passato sono stati anche più caldi del periodo presente, nonostante la concentrazione di CO2 fosse più bassa dell’attuale, mentre sono correlati ai cicli millenari dell’attività solare. Questi effetti non sono riprodotti dai modelli.
      Va ricordato che il riscaldamento osservato dal 1900 ad oggi è in realtà iniziato nel 1700, cioè al minimo della Piccola Era Glaciale, il periodo più freddo degli ultimi 10.000 anni (corrispondente a quel minimo millenario di attività solare che gli astrofisici chiamano Minimo Solare di Maunder). Da allora a oggi l’attività solare, seguendo il suo ciclo millenario, è aumentata riscaldando la superficie terrestre. Inoltre, i modelli falliscono nel riprodurre le note oscillazioni climatiche di circa 60 anni. Queste sono state responsabili, ad esempio, di un periodo di riscaldamento (1850-1880) seguito da un periodo di raffreddamento (1880-1910), da un riscaldamento (1910-40), ancora da un raffreddamento (1940-70) e da un nuovo periodo di riscaldamento (1970-2000) simile a quello osservato 60 anni prima. Gli anni successivi (2000-2019) hanno visto non l’aumento previsto dai modelli di circa 0.2°C per decennio, ma una sostanziale stabilità climatica che è stata sporadicamente interrotta dalle rapide oscillazioni naturali dell’oceano Pacifico equatoriale, conosciute come l’El Nino Southern Oscillations, come quella che ha indotto il riscaldamento momentaneo tra il 2015 e il 2016.
      Gli organi d’informazione affermano anche che gli eventi estremi, come ad esempio uragani e cicloni, sono aumentati in modo preoccupante. Viceversa, questi eventi, come molti sistemi climatici, sono modulati dal suddetto ciclo di 60 anni. Se ad esempio si considerano i dati ufficiali dal 1880 riguardo i cicloni atlantici tropicali abbattutisi sul Nord America, in essi appare una forte oscillazione di 60 anni, correlata con l’oscillazione termica dell’Oceano Atlantico chiamata Atlantic Multidecadal Oscillation. I picchi osservati per decade sono tra loro compatibili negli anni 1880-90, 1940-50 e 1995-2005. Dal 2005 al 2015 il numero dei cicloni è diminuito seguendo appunto il suddetto ciclo. Quindi, nel periodo 1880-2015, tra numero di cicloni (che oscilla) e CO2 (che aumenta monotonicamente) non vi è alcuna correlazione.
      Il sistema climatico non è ancora sufficientemente compreso. Anche se è vero che la CO2 è un gas serra, secondo lo stesso IPCC la sensibilità climatica ad un suo aumento nell’atmosfera è ancora estremamente incerta. Si stima che un raddoppio della concentrazione di CO2 atmosferica, dai circa 300 ppm preindustriali a 600 ppm, possa innalzare la temperatura media del pianeta da un minimo di 1°C fino a un massimo di 5°C. Questa incertezza è enorme. In ogni caso, molti studi recenti basati su dati sperimentali stimano che la sensibilità climatica alla CO2 sia notevolmente più bassa di quella stimata dai modelli IPCC.
      Allora, è scientificamente non realistico attribuire all’uomo la responsabilità del riscaldamento osservato dal secolo passato ad oggi. Le previsioni allarmistiche avanzate, pertanto, non sono credibili, essendo esse fondate su modelli i cui risultati sono in contraddizione coi dati sperimentali. Tutte le evidenze suggeriscono che questi modelli sovrastimano il contributo antropico e sottostimano la variabilità climatica naturale, soprattutto quella indotta dal sole, dalla luna, e dalle oscillazioni oceaniche.
      Infine, gli organi d’informazione diffondono il messaggio secondo cui, in ordine alla causa antropica dell’attuale cambiamento climatico, vi sarebbe un quasi unanime consenso tra gli scienziati e che quindi il dibattito scientifico sarebbe chiuso. Tuttavia, innanzitutto bisogna essere consapevoli che il metodo scientifico impone che siano i fatti, e non il numero di aderenti, che fanno di una congettura una teoria scientifica consolidata.
      In ogni caso, lo stesso preteso consenso non sussiste. Infatti, c’è una notevole variabilità di opinioni tra gli specialisti – climatologi, meteorologi, geologi, geofisici, astrofisici – molti dei quali riconoscono un contributo naturale importante al riscaldamento globale osservato dal periodo preindustriale ed anche dal dopoguerra ad oggi. Ci sono state anche petizioni sottoscritte da migliaia di scienziati che hanno espresso dissenso con la congettura del riscaldamento globale antropico. Tra queste si ricordano quella promossa nel 2007 dal fisico F. Seitz, già presidente della National Academy of Sciences americana, e quella promossa dal Non-governmental International Panel on Climate Change (NIPCC) il cui rapporto del 2009 conclude che «La natura, non l’attività dell’Uomo governa il clima».
      In conclusione, posta la cruciale importanza che hanno i combustibili fossili per l’approvvigionamento energetico dell’umanità, suggeriamo che non si aderisca a politiche di riduzione acritica della immissione di anidride carbonica in atmosfera con l’illusoria pretesa di governare il clima.

      Più nota a livello internazionale la “Dichiarazione europea sul clima” di 500 scienziati interessati al clima appartenenti a tredici Paesi d'Europa e a vari Paesi extra-europei compresi Usa e Russia, una eccentrica è stata indirizzata al segretario generale dell’Onu contro l’allarmismo climatico e le conseguenze sia scientifiche, sia economiche che potrebbe avere tale drammatizzazione, non suffragata – sostengono gli scienziati – da vere prove scientifiche.
      Meno argomentata, più sintetica e quindi di tono più tranchant rispetto a quella italiana dei 90, anche questa dichiarazione contesta l'allarmismo sul riscaldamento globale ("Non c'è emergenza climatica"), facendo notare che di fronte al forte aumento della CO2 (che non può essere considerato un inquinante essendo alla base della vita sulla Terra e addirittura nutrimento per le piante, a tal punto da favorire lo sviluppo delle foreste), provocato non solo da fattori antropici ma anche naturali, si è avuto nella realtà un aumento di temperatura media nettamente inferiore alle aspettative e agli allarmi. Segno evidente che il collegamento tra CO2 e temperatura non è né così diretto né così immediato come si vuol far credere. La politica climatica, insomma, si basa modelli inadeguati

      I due appelli, come si vede, contraddicono la stragrande maggioranza degli Enti, degli studi e degli scienziati specialisti di tutto il Mondo, il che avrà pure la sua importanza, e in particolare l’ICPP, l’ente che pur non conducendo ricerche autonome si è dato il compito di rappresentare una sorta di Consensus internazionale attraverso la selezione degli studi in materia.
      Però, non possiamo negare che la discussione possa lasciare il campo scientifico e approdare a quello economico e sociale. Con modelli matematici ancora così imperfetti, le drastiche misure terapeutiche proposte possono essere “crudeli” e danneggiare gravemente l’economia mondiale già toccata da squilibri e crisi, a cominciare dai Paesi più poveri, se questi dovessero rispettarle, oppure interessare soltanto il Nord-America e ancor più i Paesi Europei, finora dimostratisi i più sensibili al problema.
      Anche con queste preoccupazioni accessorie presentiamo entrambi i documenti, che contrastano con la stragrande maggioranza degli studiosi, per completezza d’informazione e in una corretta dialettica ecologica e liberale che fa ricorso come metodo allo strumento del dubbio. I punti poco chiari o non dimostrati sono diversi, come abbiamo visto sopra per il collegamento CO2-temperature. Il pericolo, in una informazione vistosamente carente o unidirezionale, è sempre il conformistico “pensiero unico”. Infatti, se è vero che “la scienza è scienza”, è altrettanto vero che ipotesi di lavoro, proiezioni e modelli matematici sono opzioni umane soggette a ogni limite, dalle valutazioni metodologiche ai condizionamenti culturali e politici.

AGGIORNATO IL 6 OTTOBRE 2019

20 gennaio 2018

 

Rifiuti in città. Oltre ai soliti vizi, ora anche i nuovi gruppi politici incapaci e accecati dagli slogans.

Subito dopo il rifiuto della Politica, paradossalmente è proprio la politica dei Rifiuti, inadeguata, del tutto assente, e comunque sbagliata quando ha come unica traccia vuoti slogans elettorali populistici senza capo né coda, che sta caratterizzando queste nuove classi dirigenti improvvisate apparse alla ribalta in alcune città, tra cui purtroppo la Capitale d’Italia. Improvvisate e, secondo noi, anche eversive – strano che non lo dica nessun commentatore – dato che loro stessi dovrebbero sapere già in partenza che introdurre la sabbia dell’incompetenza più totale in un meccanismo equivale a sabotarlo. Fatto sta che sovrapponendosi ai vecchi vizi pluridecennali delle Amministrazioni Pubbliche, tipica quella romana, la plateale mancanza del minimo indispensabile di cultura politica, giuridica, economica e amministrativa, e perfino di intelligenza comune, impediscono a questi neofiti velleitari non solo di risolvere, ma perfino di affrontare il problema dei rifiuti urbani. E non parliamo di quello dei trasporti pubblici. Siamo lieti di pubblicare sull’argomento l’articolo di Beppe Facchetti, storico esponente liberale, indipendente, apparso sull’Eco di Bergamo il 19 gennaio 2018.  (Nico Valerio)

RIFIUTI E TRASPORTI
La prova politica

La crisi dei rifiuti e l’incombente bolla dei trasporti urbani della Capitale, pongono più in generale la questione del pubblico che fa impresa. Mestiere difficile, perché le finalità generali sono diverse da quelle private, ma non impossibile, se i manager sono capaci e gli amministratori distinguono il legittimo indirizzo politico dal ruolo operativo. L’efficienza, però, non va d’accordo con le pregiudiziali ideologiche e con interessi elettorali e di potere dei partiti, anche di quelli appena arrivati. Un’azienda enorme come l’Atac di Roma è già all’ultima spiaggia, anche se non può fallire e dovrà essere commissariata, ma continua a chiudersi nell’elegante dimensione detta «in house».
      Potrebbe cercare una (difficile) soluzione di mercato, ma è sgradita a politica e sindacati che fanno resistenza, perché richiederebbe cure da cavallo, pur inevitabili. Meglio i debiti. Contro l’ingresso di un socio privato, magari anche le Ferrovie, da Milano-Casaleggio è arrivato il veto. In questo caso la scelta politica è contro la democrazia diretta: pur di non indire il referendum radicale sulla privatizzazione, si sta rinnovando il contratto con Atac. Meglio gestire migliaia di dipendenti, il 25% dei quali dichiara di essere disabile, e rassegnarsi ad un terzo dei bus che non esce in strada, e se esce si rompe.
      Il caso Brescia è – all’opposto – quello di rifiuti che rendono nel tempo miliardi, e trasporti urbani che possono essere aiutati in sinergia. Grazie ad una scelta politica a favore del termovalorizzatore più premiato del mondo, il Comune ha chiuso bilanci d’oro, ha diminuito la Tari, ha riscaldato mezza città con la monnezza non differenziabile e si è persino regalato una metropolitana: un cerchio che si chiude virtuosamente. Scelta politica, dicevamo, diversa da quella di Roma che, pur avendo finalmente sepolto la più grande discarica d’Europa, non vuole termovalorizzatori, e deve baloccarsi con 4.700 tonnellate al giorno di immondizia, 1,7 milioni anno, e contemporaneamente rischia di essere travolta dai debiti miliardari di un’azienda trasporti che deve coprire un’area grande come due province lombarde. L’effetto domino è devastante: cittadini che aspettano eternamente il bus, in mezzo ai rifiuti.
      Quello che si prepara è insomma un disastro finale su entrambi i fronti, che l’attuale amministrazione ha aggravato, sommando rotazione continua del management e guida politica eterodiretta. Senza una visione complessiva dei servizi pubblici, è certo che i trasporti – in una città tanto grande – sono un problema che ammazzerebbe anche il miglior privato, perché il business è davvero diabolico, dipendendo da sovvenzioni e biglietti, che gli utenti evadono in percentuali paurose. I rifiuti, invece, costituirebbero un ciclo virtuoso e persino potenzialmente lucroso se si capisse che tutto, anche l’ultimo rifiuto, può essere valorizzato. Ma non va così, e i proclami sui rifiuti zero (opzione respinta in tutta Europa) e la differenziata promessa al 70% (è oggi sempre al 40% di Marino) sono utopie spostate nel tempo.
      E allora? Campo libero al turismo della monnezza, cercando qualcuno che a caro prezzo se la prenda, possibilmente non Regioni a guida Pd o Pizzarotti di Parma cacciato via anche per questo. Su 1,7 milioni di tonnellate l’anno, circa il 52%, in assoluto 884 mila tonnellate, devono viaggiare: vicino (Lazio) e lontano (57 mila in Austria), per non parlare delle 146 mila di organico che vanno in Friuli. In sostanza, questo non voler termovalorizzare in casa (solo 60 mila tonnellate nell’inceneritore Acea di proprietà), regala vantaggi economici altrui, riempiendo ferrovie ed autostrade (qualche volta anche navi che fanno il percorso inverso dei migranti) di inquinamento itinerante. Un termovalorizzatore da 300 mila tonnellate costerebbe 300 milioni, ma si spendono ogni anno 200 milioni (su un totale Tari di 670), di cui 63 di trasporto, per piazzare l’immondizia altrove.
      E l’inquinamento? Si fa in fretta a parlare di termovalorizzatori, ma l’inquinamento? Ebbene tutti e 47 gli impianti esistenti in Italia producono 5 milioni di tonnellate all’anno di CO2. Meno di quanto produce il solo girovagare monnezzaro della Capitale, che già convive – ogni mattina tra le 7,30 e le 8,30 – con la produzione di 7 milioni di tonnellate di CO2 del milione di automobili in circolazione a Roma in un’ora di punta… Ma quelli fanno bene alla salute. (BEPPE FACCHETTI)

IMMAGINI. 1. Scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna dopo una importante partita di calcio (foto Messaggero). 2. Maiali che grufolano tra i rifiuti nella periferia di Roma. 3. Via della Conciliazione (S.Pietro) dopo uno dei tanti eventi del Vaticano. 4. Rifiuti e perfino deiezioni umane dietro le auto nel parcheggio della stazione Cipro della Metropolitana romana (foto N.Valerio 2017).

03 dicembre 2017

 

Ma escludendo le eruzioni vulcaniche, « i satelliti non mostrano accelerazione nel riscaldamento globale ».


Ben noto negli ambienti dei climatologi americani come scienziato riduzionista, se non negazionista dell’influenza dell’uomo sul progressivo riscaldamento globale dell’atmosfera (“Global Warming”), John Christy ha presentato un’elaborazione scientifica realizzata col collega Richard McNider, entrambi dell’Università dell’Alabama a Huntsville, che rivede l’intero fenomeno del riscaldamento globale causato dall'effetto serra. Lo studio è stato finanziato dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che corrisponde a un nostro Ministero governativo. 
      La tesi principale – se abbiamo capito bene dall’articolo (bisognerebbe leggere lo studio originale, finora introvabile) è che i dati recenti sarebbero stati falsati specialmente dalle eruzioni vulcaniche generando una tendenza patologica. Ma, ci assicurano coloro che seguono da anni il dibattito sui dati climatici negli Stati Uniti, Christy avrebbe riproposto un suo vecchio e abituale cavallo di battaglia polemico. Crediamo di fare cosa utile riportando l’intero articolo (*). Per i più esperti, tecnici o i veri appassionati riportiamo anche un lungo articolo (**), ben illustrato da grafici, di Pat Michaels e Chip Knappenberger (“Climate models versus climate reality” sul sito specializzato Climate etc. (NV)  

STUDIO: I SATELLITI NON MOSTRANO ACCELERAZIONE NEL RISCALDAMENTO GLOBALE IN 23 ANNI
 “Il riscaldamento globale non ha accelerato l'aumento della temperatura nell'atmosfera in oltre due decenni, secondo un nuovo studio finanziato dal Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti. Gli scienziati climatici dell’Università dell’Alabama-Huntsville, John Christy e Richard McNider, hanno scoperto che  eliminando dai dati gli effetti climatici delle eruzioni vulcaniche nelle prime ore la registrazione della temperatura satellitare non ha mostrato praticamente alcun cambiamento nel tasso di riscaldamento dall'inizio degli anni '90.
      “Abbiamo indicato 23 anni fa - nel nostro articolo sulla natura del 1994 - che i modelli climatici avevano una troppo elevata sensibilità dell'atmosfera alla CO2”, ha detto Christy in una nota. "Questo recente documento rafforza questa conclusione."
      Christy e McNider hanno scoperto che il tasso di riscaldamento è stato di 0,096 gradi Celsius per decennio dopo "la rimozione del raffreddamento vulcanico nella prima parte della registrazione", che "è essenzialmente lo stesso valore che abbiamo determinato nel 1994 usando solo 15 anni di dati.”
      Lo studio solleverà sicuramente polemiche. Per anni Christy ha sostenuto che i modelli climatici esagerano il riscaldamento globale nell'atmosfera, che i satelliti hanno monitorato dalla fine degli anni '70.
Christy, un noto scettico del catastrofico riscaldamento globale causato dall'uomo, ha detto che i suoi risultati rafforzano la sua affermazione che i modelli climatici prevedono un eccessivo riscaldamento nella troposfera, le cinque miglia più basse dell'atmosfera.
      I modelli sono troppo sensibili agli aumenti delle concentrazioni di anidride carbonica nell'atmosfera, ha detto. "Dalle nostre osservazioni abbiamo calcolato tale valore come 1.1 C (quasi 2 ° Fahrenheit), mentre i modelli climatici stimano tale valore come 2.3 C (circa 4.1 ° F)", ha detto Christy.
Mentre molti scienziati hanno riconosciuto la discrepanza tra le previsioni dei modelli e le osservazioni effettive della temperatura, pochi hanno davvero sfidato la validità dei modelli stessi.
       Un recente studio condotto dallo scienziato del clima Ben Santer del Lawrence Livermore National Laboratory ha rilevato che mentre i modelli si scaldavano molto, la "sovrastima" era "in parte dovuta a deficienze sistematiche in alcune delle forzature esterne riferite al dopo-2000 utilizzate nelle simulazioni del modello".
      Anche la rimozione da parte di Christy del raffreddamento basato sulle emissioni vulcaniche dai dati sulla temperatura dei satelliti potrebbe attirare l'attenzione. Lo studio ha anche rimosso i cicli di El Nino e La Nina, che sono particolarmente pronunciati nelle registrazioni satellitari, anche se questi cicli si sono in gran parte cancellati a vicenda, hanno detto i coautori.
      Christy ha detto che i suoi lavori mostrano che "i modelli climatici devono essere riorganizzati per riflettere meglio le condizioni del clima attuale, mentre le politiche basate sui risultati del modello climatico precedente e le previsioni potrebbero dover essere riconsiderate".
      Due importanti vulcani - El Chichon nel 1982 e Pinatubo nel 1991 - hanno causato un abbassamento della temperatura media globale a causa di ceneri vulcaniche, fuliggine e detriti che riflettono la luce solare nello spazio.
      Quelle eruzioni hanno significato che ci sarebbe stato un ulteriore riscaldamento negli anni seguenti, facendo apparire il tasso di riscaldamento come risultato di emissioni prodotte dall'uomo o di altri fattori, ha detto Christy. "Queste eruzioni sono avvenute relativamente presto nel nostro periodo di studio, il che ha spinto verso il basso le temperature nella prima parte del set di dati, e ha portato la registrazione generale a mostrare un trend di riscaldamento esagerato". "Mentre le eruzioni vulcaniche sono eventi naturali, sono stati i loro tempi ad aver avuto un effetto così notevole sulla tendenza. Se le stesse eruzioni fossero accadute vicino al termine più recente de set di dati, avrebbero potuto spingere la tendenza generale a numeri negativi o un raffreddamento a lungo termine ", ha detto Christy. (Michael Bastasch)

RIFERIMENTI
* http://dailycaller.com/2017/11/29/study-satellites-show-no-acceleration-in-global-warming-for-23-years/?utm_source=site-share
** https://judithcurry.com/2015/12/17/climate-models-versus-climate-reality/

10 aprile 2017

 

Origini dell’ambientalismo: il genio Peccei, il Club di Roma e i “Limiti dello sviluppo”, anzi, della crescita.

Grande intellettuale globale, economista e industriale, grande uomo dai mille interessi, generoso utopista col rovello della povertà e delle classi più svantaggiate, strenuo difensore delle libertà e nemico delle dittature, tra i più importanti ma misconosciuti protagonisti della società nell'Italia contemporanea, il geniale Aurelio Peccei il 7 aprile del 1968 fondava nella romana Accademia dei Lincei il Club di Roma, un gruppo di 100 scienziati che si dette il compito di avvertire le classi dirigenti mondiali (Governi, industriali, politici e la pubblica opinione più illuminata e responsabile) d’una verità troppo a lungo celata: la Terra è in crisi. Troppo piccola e dall'equilibrio ecologico, demografico ed economico troppo delicato per continuare a sopportare gli eccessi sia di popolazione (Asia, Africa, Sud America), sia di inquinamento, di consumismo e di sovra-produzione a cui ottusamente continua ad essere sottoposta dall’Uomo.
      Non erano quelli i “Limiti dello sviluppo”, come poi è rimasto nel titolo errato della Relazione nella traduzione italiana, perché lo sviluppo sempre procede con lo spirito degli Uomini e con gli eventi della Storia, ma solo della "crescita" (“The Limits to Growth” era il titolo originale).
      Per la prima volta uno studio dettagliato e scientifico (anche se un po' rielaborato nelle conclusioni, per aumentare il salutare effetto shock sui Governi, come ammise anni dopo lo stesso Peccei), in modo organizzato e fornendo le prove scientifiche, metteva a disposizione dell’opinione pubblica il quadro completo della compatibilità delle azioni umane con lo “stato di salute della Terra”.
      Il Rapporto fece epoca, fu tradotto nelle principali lingue e fu diffuso in tutto il Mondo. In estrema sintesi e con parole nostre, ecco lo scenario che rappresentava una ipotetica diagnosi, che poi gli eventi si incaricarono di confermare in gran parte, accompagnato da un’ipotetica reazione correttrice (o terapia) possibile:

·        Se sulla Terra continuerà senza variazioni il presente tasso di crescita di popolazione, inquinamento, industrializzazione, sfruttamento di materie prime e fonti energetiche, e produzione di alimenti, il nostro Pianeta raggiungerà i suoi limiti di crescita entro il prossimo secolo, in un periodo indefinibile.
·        Come conseguenza, si avrà una caduta rapida e non controllabile della produzione industriale e della popolazione.
·        Perciò è doveroso (e possibile) correggere i tassi di crescita, fino a raggiungere un nuovo punto di equilibrio economico ed ecologico che possa essere stabile e sostenibile anche nel futuro.
·        Questo nuovo equilibrio mondiale dovrebbe essere progettato cercando di soddisfare le uguali necessità vitali e possibilità di ciascuno (cfr. la “uguaglianza dei punti di partenza” di L. Einaudi)

      È posibile oggi sfogliare il Rapporto originale del Club di Roma (II ed. del 1972).

      Su Wikiradio, la Rai ha affidato a Marco Gisotti la rievocazione del Rapporto “The Limits to Growth” e un acuto ed esauriente ritratto del grande dirigente e intellettuale Peccei, personaggio ancora poco noto purtroppo al largo pubblico. Liberale e laicista con venature vagamente socialisteggianti, antifascista e poi partigiano di Giustizia e Libertà, grande viaggiatore e conoscitore del Mondo (Cina e Sud-America soprattutto), formidabile organizzatore di industrie (fu lui a inventare l'Alitalia) e di cultura. La trasmissione è ascoltabile qui:
      Peccei e il suo ambizioso Rapporto del Club di Roma, utilizzando i migliori scienziati del ramo e mescolando sapientemente metodi statistici, proiezioni economiche e demografiche, con una buona dose di utopia, ponevano le basi scientifiche e culturali, ma anche di metodo, dell'ambientalismo.
Come fu accolto? Con meraviglia profonda (una vera e propria “bomba” mediatica, disse qualche giornalista), a cui seguì subito, per reazione, un diffuso senso di scetticismo.
      Industriali e politici non la presero bene. L’ipotesi di fondo non fu gradita né tra i Liberali né tra i Socialisti, né tra i Democristiani né tra i Comunisti. Oggi diremmo “né a Destra né a Sinistra”. Gli ecologisti politici erano di là da venire. I Radicali pannelliani – tradendo i famosi Convegni del Mondo di Pannunzio, fondatore del primo Partito Radicale – non si interessavano minimamente di economia o di ecologia.
Con i politici e giornalisti collegati, i più ottusi e provinciali esponenti del capitalismo (ma non la Fiat e gli Agnelli, da cui proveniva, che lo appoggiavano e finanziavano, insieme ai grandi finanzieri americani e internazionali, a partire dalla Fondazione Rockefeller), continuavano invece a sostenere contro l'evidenza che la Terra si sarebbe “comunque adattata”, avrebbe “creato da sé” un nuovo equilibrio, insomma avrebbe sopportato qualsiasi “continuo accrescimento” materiale, sia di produzione, sia di popolazione, sia di inquinamento. Questo Peccei doveva essere chiaramente una sorta di "infiltrato" culturale di chissà quali “centrali anti-Occidentali”, se non addirittura “cripto-comuniste”, che puntavano a indebolire e colpire l’industria dei Paesi Liberi.
      Sul versante opposto, i comunisti (numerosissimi, allora), i socialisti, gli extra-parlamentari alla sinistra del PCI, gli operaisti (insomma, oggi diremmo la Sinistra, che allora era cosa ben diversa e ben più solida e agguerrita), vedevano l’iniziativa, anzi il frenetico attivismo internazionale di Peccei, e i suoi appoggi finanziari, tutti di alto bordo, come prove evidenti della longa manus delle "centrali capitalistiche e massoniche". Un “ennesimo trucco” – dicevano – per instaurare un Nuovo Ordine mondiale, oggi diremmo una "globalizzazione forzosa e pilotata" al servizio del Grande Capitale, una diversificazione o riconversione abilissima, cogliendo al volo tempestivamente i cambiamenti intravisti nella società e nello sviluppo economico, per impadronirsi dei mercati e dominare tutti i Paesi dell’area sovietica e del Terzo Mondo, Paesi non allineati e poveri, ma sempre più amici del “secondo” che del “primo” Mondo.
      Anche di pericoloso "neo-malthusianesimo" fu imputato Peccei col suo Rapporto, per aver suggerito quella doverosa, sensata, anzi, ormai tardiva limitazione delle nascite nei Paesi più poveri – e poveri quasi sempre, aggiungiamo, per colpe delle proprie classi dirigenti corrotte e incapaci – che trovava, guarda caso, concordi nella dura avversione la Chiesa Cattolica più retriva e la Sinistra che si dipingeva come più "progressista".
      E ancora alcuni anni dopo, il merceologo e ambientalista Giorgio Nebbia, e non pochi "ecologisti" italiani della prima ora, nel frattempo sorti, che come del resto Arci Ambiente (poi Legambiente) provenivano dal PCI, lo guardavano o con grande ostilità o con malcelato sospetto. Faceva eccezione, finalmente, l’area dei Radicali, grazie a Luigi De Marchi, instancabile propagandista del controllo demografico.
      E oggi? I suoi nemici, che ne infangano via-computer la memoria, sono "nuovi nemici", cioè quella larga sottocultura che diffonde complottismo e fantasiose ricostruzioni pseudo-finanziarie e fantapolitiche su internet; insomma, i sostenitori della teoria del Nuovo Ordine Mondiale, che vede le attuali crisi diabolicamente pilotate da occulti centri di Potere guidati dall'alta finanza, dai soliti "massoni" e dai soliti "ebrei". Come se nell'anarchismo e casualità estrema della Storia contemporanea, con masse emotive che votano senza ragionare, fosse possibile a qualcuno pilotare alcunché. Eppure, quella stessa sottocultura che alimenta i voti dei poveri di spirito e di cultura (5 Stelle in Italia, Lepenisti in Francia ecc.) continua a combattere le tesi preveggenti di Peccei e del Club di Roma.
      In quanto ai vecchi avversari di Peccei, sono già tutti scomparsi. Dopo la crisi del Comunismo mondiale e perfino del Socialismo, appare finalmente in crisi definitiva anche la corrente di pensiero dell’ambientalismo “rosso”, più che verde, cioè quell’interpretazione degli eventi e delle interrelazioni ecologiche ed economiche che attribuisce tutti i mali al capitalismo in quanto tale, visto come se fosse una ideologia, e per di più fissa, e non uno strumento regolabile da leggi e regole che possono, devono, essere fatte valere in ogni Paese liberale in cui la doverosa severità verso tutti, capitalisti compresi, è il fondamento della tutela delle libertà e del diritto. E come se, d’altro canto, tutto il Bene della Terra fosse in mano alla residua cultura cattolica-marxista, che capitalismo e Liberalismo non ha mai compiutamente sopportato. Non è così, invece, come si è visto dagli enormi disastri dell’ambiente provocati dalle ideologie di Sinistra (URSS, Cina e Asia, Sud America, Africa ecc.), ben superiori, tenendo conto di numero di abitanti ed estensione dei territori, ai danni causati in Europa e Nord America.
      E invece, i fatti e lo stesso progresso delle idee (che poi è nella Storia il tribunale supremo), hanno dimostrato che l'eterodosso e geniale liberale solidarista, sempre preoccupato delle popolazioni più povere e disagiate, e così bravo da farsi finanziare le proprie ricerche dai più ricchi e fortunati, come Rockefeller, aveva ragione.
      Peccei, perciò, è stato uno dei grandi Italiani della nuova Italia.

IMMAGINE. Il grafico principale dei "limiti dello sviluppo", realizzato dai primissimi rudimentali computer dell'epoca (le linee colorate sono state aggiunte successivamente).

13 aprile 2016

 

Referendum anti-trivelle: solo col “Sì” niente più scandalosi regali ai petrolieri, e coste più protette.

L’OGGETTO VERO DEL REFERENDUM. Gli Italiani si apprestano a votare il 17 aprile un referendum popolare nazionale indetto per la prima volta in Italia dagli Enti locali (nove Regioni costiere), già falcidiato dalla Cassazione, e di cui sono rimasti in vita solo due quesiti. Questi non sono "Petrolio Sì o No", né "Nuove trivelle Sì o No". Ma il Sì del Referendum è contro l’esenzione dal limite delle 12 miglia per le già esistenti piattaforme marine ("offshore") che fanno estrazioni di idrocarburi (oggi ben 48 concessioni su 69, dice l’ENI, sono all’interno delle 12 miglia, cioè sotto costa, quindi con potenziali rischi all'ambiente e al paesaggio); e contro la proroga delle attuali concessioni senza alcuna data limite, fino all’esaurimento dei giacimenti sottomarini, a insindacabile giudizio dei concessionari stessi. Il che vorrebbe dire, visto che ora stanno estraendo poco (estrarre non conviene quando il prezzo degli idrocarburi è basso), far durare le concessioni, oltretutto quasi gratuite, con le relative deturpanti piattaforme in mare, ancora per chissà quanti anni, forse decenni, continuando nel frattempo a invadere gli specchi d’acqua e il panorama marino, a offendere il Paesaggio, a inquinare il mare. Per evitare tutto questo, cioè che le attuali concessioni possano operare anche entro le 12 miglia e possano essere rinnovate all'infinito a discrezione delle ditte, c’è un solo modo: votare “Sì”.

MOTIVI OSCURI, TESTI POCO CHIARI, INFORMAZIONE SCARSA. In realtà dell’intera questione gli Italiani sanno poco o nulla, oppure hanno un’idea confusa, distorta, falsificata o parziale. Come mai? C’è la tradizionale ostilità dei politici italiani all’istituto del referendum, comprensibile in uno Stato liberale fondato sul Parlamentarismo e la democrazia rappresentativa. E questo è giusto e sano. Invece non è giusto ricorrere al mezzuccio – caro ai Borbone o al Papa Re – di mantenere nell’ignoranza i cittadini per condizionarli (p.es. con un’informazione carente o distorta in televisione): è cosa per niente liberale. Fatto sta che questo è di per sé un referendum equivoco, poco chiaro non solo nelle complicate clausole concessorie e industriali, ma perfino nei suoi aspetti ecologici; insomma poco incisivo.
      Un referendum equivoco in sé, perché il testo della legge da abrogare è stato scritto malissimo, e – diciamolo – non per garantire le numerose libertà dei cittadini in materia (ambiente pulito, salute, concorrenza economica ecc.), ma solo per fare favori ai petrolieri, anzi ai “petro-gasieri” (perché, in cambio di che cosa?), tanto da non rendere evidenti ma discutibili le conseguenze stesse dell’abrogazione di alcune parole (oggetto, appunto, del referendum). Dopodiché, la confusione in materia tra tesi contrapposte, parziali o mistificatorie di propagandisti, lobbisti, giornalisti, economisti, tecnici e cittadini profani è il logico corollario della scarsa chiarezza normativa, ecologica ed economica sulla questione. Perciò, non c’è da meravigliarsi se i quesiti del referendum sono stati propagandati in modo settario e fazioso da tutti: fautori del Sì, del No e dell’astensione.

IL “NO” NASCOSTO NELL’ASTENSIONE. Quest’ultima, poi, è un’altra forma di No, giuridicamente del tutto legittima in quanto implicitamente prevista dai nostri grandi Padri Costituenti, ma – diciamolo – la più scorretta dal punto di vista dell’etica civica (come ha voluto dire il presidente della Corte Costituzionale, Parolo Grossi), anche perché - aggiungiamo noi - i fautori del No che opportunisticamente non si recano a votare traggono un vantaggio indebito dalla regola del quorum (il richiesto limite minimo di votanti: metà degli elettori più uno) e nel computo finale s’ingrandiscono oltre i propri meriti, confondendo il loro voto col più vasto numero di cittadini passivi, pigri, stanchi o nemici della Politica, che non vanno mai a votare (e in Italia sono almeno il 40% degli elettori), trovandosi così paradossalmente ad aver manifestato comunque un “voto”, anzi a essere determinanti senza aver fatto nulla. Sarà lecito, ma non è giusto politicamente né civicamente. Per questi motivi il quorum, a nostro parere, deve essere abolito, specialmente oggi quando sempre meno cittadini si recano a votare, accampando i più diversi motivi, l’ultimo dei quali è l’opposizione al quesito referendario. Di questo passo, visto che ormai pochi si recano a votare – qualunque sia l’elezione – nessun referendum potrà mai più esser valido. Dovrebbe bastare, come in Svizzera o negli Stati Uniti che il Sì riporti anche un solo voto in più del No, o viceversa.

REGIONI CONTRO STATO. Per di più il referendum è stato indetto con la scusa dell’ecologia, ma in realtà soprattutto per motivi politici e amministrativi. Va letto come un tentativo di rivincita anti-storica, una rivolta delle Regioni – sbagliata, sbagliatissima – contro lo Stato, per riavere competenze esclusive, come l’ambiente, che gli vengono sottratte, e conquistare magari competenze su energia e altro ancora. L’unico vantaggio del No, anzi, sarebbe proprio questo: una sacrosanta e ben meritata batosta per le Regioni richiedenti, che hanno rialzato la cresta contro lo Stato e vorrebbero riavere tutti i loro vecchi privilegi con cui hanno male amministrato e dilapidato ricchezza, e che insieme con tante altre locali “incompetenze” esclusive hanno causato all’Italia molti danni economici, tanto clientelismo mafioso e tanta corruzione. Infatti, proprio per dare una lezione alle Regioni, solo per questo, c’è chi ha deciso di votare No: scelta rispettabile, se il problema fosse solo questo. Ma non possiamo fare come il marito sciocco che per punire la moglie decide di evirarsi. Lo specifico energetico-ambientale, anche se in questo referendum non sembra prevalente rispetto ai favori sfacciati ai “petrolieri”, ha pur sempre la sua importanza per noi ecologisti, e deve giustamente prevalere nella valutazione prima del voto, indipendentemente da chi lo ha proposto.

SBAGLIATO NON VOTARE. Allora non dovremmo andare a votare? E no, perché così otterremmo l’effetto paradosso di far vincere abusivamente delle due tesi, quella peggiore: il No. Perché sarebbe la scelta peggiore? Perché vanificherebbe i vantaggi notevoli apportati da una vittoria del Sì.

I RISULTATI DELLA VITTORIA DEL SI’. 
      1. Concorrenza. Con il Sì, almeno, saremo soddisfatti di vedere imposto a tutti, non solo alle nuove concessioni, ma anche a quelle già operanti, il limite delle 12 miglia marine per le piattaforme. Oggi, invece, la legge prevede un’eccezione al divieto a favore delle vecchie concessioni, operando una discriminazione amministrativa contro i nuovi concessionari a favore dei vecchi: una diseguaglianza nella concorrenza che riteniamo non solo illiberale, ma forse anche illegale.
      2. Ambiente. Non vuol dire che le estrazioni entro le 12 miglia cesseranno subito, ma entro un arco di alcuni anni, e perfino potranno esserci nuove proroghe, ma precedute da nuove valutazioni di impatto ambientale (come fa notare in un articolo, con altri particolari interessanti, l'ex giudice Gianfranco Amendola). Quel che è certo, è che l’allontanamento, permetterà di ridurre i rischi di inquinamento e paesaggistici, di controllare meglio e prevenire eventuali danni ambientali causati dagli apparati di estrazione, che se più vicini alle coste, intensamente abitate e interessate anche al turismo e alla pesca, potrebbero avere conseguenze più nefaste.
      3. Libertà della politica tariffaria e maggiori introiti per lo Stato. La collettività, e per essa lo Stato, avrebbe il vantaggio sicuro di riappropriarsi della libertà contrattuale, cioè di non privarsi in futuro dell’arma della gestione intelligente dei rinnovi di concessione dell'estrazioni di idrocarburi – quando sarà il momento opportuno – in cambio di congrue royalties, a seconda dei prezzi di mercato.
      4. Cessazione del rinnovo automatico sine die. Darebbe lo stimolo alle società concessionarie spingendole a estrarre tutto il petrolio o gas possibile fino alla scadenza della concessione. Ma aumentando le estrazioni oltre la soglia massima della franchigia esente da royalties, dovrebbero finalmente pagare le royalties che oggi non pagano allo Stato (v. oltre).
      Nessun altro scopo o conseguenza è previsto. Il Sì al Referendum non vuol dire eliminazione di piattaforme, né licenziamento di operai e tecnici. Vuol dire solo ridurre in modo notevole i danni ambientali ed economici per lo Stato. Neanche un danno per l'energia del Paese si verifica. Infatti lo Stato italiano - a differenza di altri Stati - con la concessione cede la proprietà del petrolio o gas estratto ai concessionari privati - spesso società straniere - che ne possono fare quello che vogliono, e spesso lo esportano. Quindi, non è vero che tutto il gas e il petrolio estratto resta in Italia. Altre conseguenze e altri aspetti del problema sono descritti in modo molto chiaro in un articolo di Quale Energia

SCANDALOSI AIUTI DI STATO AI PETROLIERI: TARIFFE BASSISSIME O NULLE. Questo è lo scandalo maggiore dell’intera faccenda. Le royalties, calcolate in percentuali del valore di mercato del prodotto estratto, sono quote che le ditte concessionarie pagano in cambio del diritto di sfruttamento al concedente, il proprietario del suolo o dell’area marina (lo Stato, cioè idealmente tutti noi cittadini pro quota). Ma a parte che chi tiene il conto degli idrocarburi realmente estratti ogni anno, in tonnellate o metri cubici, sono le stesse aziende concessionarie, e quindi il concedente Stato deve fidarsi, queste royalties che all’estero non sono quasi mai inferiori al 30%, in Italia sono bassissime, un vero regalo ai petrolieri: 7% per l’estrazione di gas e petrolio a terra, 4% per l’estrazione di petrolio in mare. A queste royalties ridicole per fortuna si aggiunge un 3% per il fondo per la riduzione del prezzo dei prodotti petroliferi, se la risorsa è estratta sulla terraferma, o per la sicurezza e l’ambiente se estratti in mare (come si legge sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico). Da tutte le royalties pagate dalle aziende che operano in Italia, lo Stato ricavo la miseria di 300 milioni circa all'anno.

Restrizioni ambientali molto più severe impongono gli altri Paesi d'Europa, come riferisce un articolo del Fatto. La Norvegia p.es., pur avendo il clima che ha, coste rocciose e quasi disabitate, impone alle piattaforme una distanza di almeno 50 chilometri dalla costa, altro che meno di 12 miglia come fa l'Italia che pure ha coste abitatissime e piene di bagnanti! Mediamente più alte le royalties negli altri Paesi rispetto all'Italia. La tassazione totale in Norvegia arriva in media al 78%, secondo uno studio di Nomisma-Energia, utile per chi vuole approfondire tutta la materia (ci sono molte tabelle). E' consultabile in originale qui.
      Intanto, data la gravità del prolungato danno erariale, il leader dei Verdi, Angelo Bonelli ha inviato un esposto alla Corte dei Conti in cui calcola in circa 800 milioni di euro il regalo che il Governo fa ai petrolieri. Del resto, il rifiuto immotivato (anzi, falsamente motivato con un divieto di legge) di Renzi di accorpare il Referendum alle Elezioni amministrative (election day) è costato ai cittadini italiani circa 300 milioni di euro.
      Ma, ripetiamo, più grave ancora delle spese ottuse per impedire l'election day e limitare l'afflusso alle urne dei cittadini, è il regalo enorme che il Governo, impegnando lo Stato italiano, fa ogni anno, ai già ricchissimi petrolieri, che già godono di sovrapprofitti fuori mercato dovuti ad accordi di cartello già in passato sotto la lente del Garante per la Concorrenza, alla lentezza estrema con cui adeguano il prezzo al pubblico della benzina rispetto ai costi decrescenti del petrolio greggio (e all’improvvisa rapidità quando avviene i costi salgono), in un ben noto meccanismo perverso e vischioso che è sempre a favore del produttore e mai del cittadino acquirente. Altro insulto all’uguaglianza liberale, cioè dialettica, delle posizioni di domanda (cittadini acquirenti) e offerta (cittadini produttori-venditori) di cui scriveva spesso il grande Einaudi.
      Ma non è finita: il grave deve ancora venire. Infatti, queste percentuali di royalties già così scandalosamente basse, sono irragionevolmente azzerate da una soglia minima o franchigia, come riporta il sito del Ministero. Le società concessionarie, infatti, evidentemente viste dai politicanti che fanno le leggi e dai funzionari dello Stato poco meno che come “eroi” o “santi francescani”, i soli a lavorare in Italia, anzi gli unici che si sacrificano per il Bene di tutti e si addossano inenarrabili sacrifici al posto di una viziata e fannullona collettività, e che quindi occorre premiare, non pagano nulla allo Stato italiano fino alla bellezza di 50.000 tonnellate di petrolio estratto o 80 milioni di metri cubici di gas naturale in mare ogni anno (20.000 ton o 25 milioni di mc a terra). In totale lo Stato regala ogni anno alle aziende oltre 3 milioni di tonnellate di petrolio (e regali analoghi per il gas).
      E poiché l’interesse dei titolari delle concessioni è quello di pagare meno royalty possibile, la proroga della durata delle concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti graziosamente concessa dal Governo ai poveri “petro-gasieri” equivale a dire loro: «estraete meno che potete e non versate nemmeno un euro di royalty, tanto avete tutto il tempo che volete per sfruttare il giacimento», come giustamente fa notare il sito economico Cetri-tires.
      Capito il regalo? Ecco il motivo del grande interesse dei “petro-gasieri” e del Governo “amico” al rinnovo senza limiti di tempo, ad libitum, delle concessioni, per di più quasi gratuito. Ora la domanda vera che deve porsi il cittadino, tanto più se liberale e-o ecologista, è: come mai questa liberalità inusuale all’estero nei Paesi avanzati? Che cosa c’è dietro? E in cambio di che cosa?

RISCHIO PROCEDURA D’INFRAZIONE DA PARTE DELL’EUROPA. L'evidente "aiuto di Stato" ad alcune imprese, cosa vietatissima in qualunque Stato liberale, dovrebbe riempire di sdegno i tanti sedicenti liberali presenti nei diversi partiti. Che invece tacciono, dimostrandosi così, ancora una volta, solo dei conservatori legati ai monopolisti e agli aiuti di Stato al di fuori della concorrenza. «Le concessioni a vita, cioè fino a esaurimento dei giacimenti, per l'estrazione di idrocarburi previste dalla norma che domenica sarà oggetto del referendum, non risultano in linea con le norme comunitarie sulla concorrenza», hanno dichiarato in un comunicato Riccardo Magi e Valerio Federico, rispettivamente segretario e tesoriere dei Radicali Italiani. «Se dunque la legge non verrà abrogata dall'esito referendario l'Italia rischierà una procedura d'infrazione. Per questo, dopo aver sollevato pubblicamente il tema, abbiamo preparato una denuncia alla Commissione europea mettendo in evidenza gli aspetti della legge in conflitto con gli obblighi derivanti dalla direttiva 94/22/CE, la quale impedisce a uno Stato membro di adottare una normativa interna che preveda l'affidamento di concessioni e autorizzazioni senza l'esplicita indicazione di un termine di durata della autorizzazione, pur lasciando aperta la possibilità della proroga della stessa autorizzazione nel caso sussistano i presupposti». 

SE VINCONO I NO? Questa inquietante zona d’ombra, questa distorsione del mercato e della concorrenza, quest’uso spregiudicalo e di favore della politica delle tariffe agli “amici” e agli “amici degli amici”, queste anomalie gravi che danneggiano sia la libertà d’intrapresa, sia l’economia stessa e l’ambiente, resteranno tali, anzi faranno più danni di prima, se vincono i No e l’astensionismo col rinnovo automatico delle concessioni fino alle calende greche.

MISTIFICAZIONI E BUGIE. Per il resto ci sono molte idee sbagliate e mistificazioni. Non è un referendum che in caso di vittoria del Sì “metterebbe in ginocchio” la produzione e quindi i consumi energetici in Italia. Perché il referendum interesserà in modo diretto solo 17 concessioni da cui si estrae appena il 2,1 % dei consumi nazionali di gas e lo 0,8 % dei consumi nazionali di petrolio gas (Cetri-Tires cit.). Quindi, ammesso anche, e non concesso, che dovessero venire a mancare da un giorno all’altro, come sostengono i signori del No per propaganda (ma non è così), non succederebbe nulla di grave e il leggero calo di estrazioni sarebbe perfettamente compatibile con i normali alti e bassi dei consumi energetici, magari favorendo un minimo di risparmio energetico e di comportamenti virtuosi (Cetri-Tires)
      Poi questo referendum non è un “referendum sul petrolio”, come pure ci piacerebbe (e come vanno dicendo per illudere i cittadini ignoranti alcuni propagandisti del Sì). L’ENI, ente italiano interessato alle estrazioni, ha diffuso dati secondo cui la produzione marina (il totale estratto offshore) sarebbe per il 93% di gas naturale liquido e solo per il 7% di petrolio. Ma allora, se questi dati sono veri, perché i fautori del No fanno balenare in caso di vittoria del Sì un maggior traffico di petroliere, travasi e rischi di maggiore inquinamento? Che c’entra il petrolio, se loro stessi dicono che si tratta quasi solo di gas naturale? Dove stanno le bugie, nei dati statistici aggregati o nella minaccia dell’andirivieni di petroliere? Insomma, propaganda basata su esagerazioni oppure dati addomesticati?
      E nonostante il negativo impatto ambientale e paesaggistico, e gli indiscutibili danni all’ecosistema marino delle piattaforme in sé e dell’attività estrattiva, non c’è dubbio che il gas naturale sia oggi considerato una delle fonti di energia più pulite, che non inquina né l’acqua né il suolo, non provoca nella fase di combustione polveri sottili PM 10 o PM2,5, ma soltanto minime quantità di anidride carbonica CO2, ossidi di azoto Nox e trascurabili quantità di anidride solforosa SO2
      Lasciare dove e come stanno le piattaforme, senza minimamente toccarle almeno con tariffe adeguate, non è affatto una “grande possibilità” energetica per l’Italia, come dice la propaganda dei petrolieri. Anzi, con il basso prezzo del petrolio, la scarsa qualità di quello italiano, le esigue rendite per lo Stato, e gli altissimi costi paesaggistici e ambientali delle piattaforme, estrarre non conviene più, almeno in questi anni.

FRANCIA E CROAZIA SMETTONO. Va bene, «ma se non estraiamo noi, lo faranno gli altri, per esempio nell’Adriatico la dirimpettaia Croazia, o nel Tirreno e un po’ ovunque nel Mediterraneo la Francia, sost. Ed essendo i depositi sottomarini in comune, l'Italia rinuncerebbe ottusamente a una ricchezza certa in favore degli altri Stati: si può essere più autolesionisti?». Questa la principale argomentazione dei fautori del No al referendum. Qualcuno si è anche preoccupato di pubblicare una mappa con l’Adriatico disseminato di piattaforme croate. Insomma, dovremmo estrarre anche se non conviene a nessuno – imprenditori concessionari, Stato, cittadini – solo per sottrarre idrocarburi e quote di mercato ai concorrenti stranieri.
      E invece, no, non è vero niente. I siti che appaiono sulla mappa dell’Adriatico croato non sono funzionanti. L’americana Marathon Oil e la OMV, dopo aver ottenuto nel gennaio 2015 la maggior parte delle concessioni, hanno rinunciato nell’estate. Ma poiché l’opinione pubblica in Croazia, e non solo sulla costa, è contraria, e ci sono state manifestazioni di protesta nella popolazione, in ottobre il Governo croato ha sospeso la firma degli altri accordi, per riparlarne dopo le elezioni. Il nuovo Capo di Governo, Orešković, fin dal discorso inaugurale ha annunciato una moratoria alle concessioni petrolifere marine, che perciò non sono state ancora sottoscritte e sono sospese a tempo indeterminato, come riporta il sito Gli Stati Generali, che pubblica anche la mappa contestata..
      Anche la Francia si è sfilata in modo ancor più aperto e deciso dalle inutili, antieconomiche e pericolose trivellazioni nel Mediterraneo. La ministra per l’ambiente, Royale, ha deciso una “moratoria immediata” sui permessi di ricerca degli idrocarburi che prelude all’abbandono delle ricerche di combustibili fossili dal terreno o dal mare. Anzi, riporta in un articolo La Stampa, farà di più: chiederà «l’estensione di questa moratoria all’insieme del Mediterraneo, nel quadro della convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale mediterraneo». Quindi, altro che Italia: tutta l’Europa sarà chiamata a sospendere le trivellazioni. E sostegno migliore alle ragioni del Sì non si poteva avere, superando le beghe provinciali dei politicanti italiani.

CLUB ECOLOGISTI ED ESPERTI. Dal canto loro, la totalità degli ecologisti italiani e quasi tutte le associazioni del settore, dal WWF a Legambiente, compresa la moderata FAI, hanno invitato a votare Sì. Anche gran parte dei Radicali d’impronta liberal-ecologista, seguendo le analisi, sottili e non banali, dell’esperto Michele Governatori, è per un Sì “critico” e con riserve (quelle che abbiamo riferito sopra), ma pur sempre un Sì. Perché dire di sì a questo referendum nato male, gestito male e fatto conoscere poco e male, è pur sempre il “male minore”, rispetto al “No” o all’astensione, per i quali tutto resterà come prima. Bisogna accontentarsi.
      Anche gli uomini di scienza si sono mobilitati. Cinquanta professori e scienziati italiani hanno redatto e sottoscritto un appello motivato per il Sì al referendum, con tutte le ragioni del voto: energetiche, economiche, occupazionali, ambientali, etiche e culturali.

LE DIECI DOMANDE IRONICHE D’UN LIBERALE. Una sintesi efficace e implacabile delle ragioni del Sì, sotto forma di questionario ironico, è quella del liberale Vittorio Vivona su Facebook:
«Al Referendum io non mi asterrò e voterò Sì, essenzialmente per le ragioni che qui espongo sotto forma di domanda.
1. Cosa ci fa questa norma mimetizzata tra i 999 commi dell'art.1 della legge di stabilità?
2. Che c'azzecca con la legge di stabilità (attenzione, non il "milleproroghe") ?
3. Da quando una concessione ha come termine il venir meno dell'utilità per il privato?
4. Perchè allora non "prorogare" le concessioni balneari finchè il mare non si è mangiato la spiaggia ?
5. Perchè continuare a chiamarla concessione e non usufrutto vitalizio ?
6. Perchè le royalties al 10% (quelle ufficiali) sono le più basse al mondo (dal 25% della Guinea allo 80% della Norvegia?
7. Perchè nella concessione non sono indicate latitudine e longitudine, ma la concessione è "unica" e valevole per più trivellazioni?
8. Perchè al di sotto delle 50 mila tonnellate scatta la franchigia e le società non pagano nulla, ma rivendono petrolio e gas al prezzo pieno di mercato?
9. Costa di più smantellare le piattaforme o farle funzionare in eterno estraendo sotto la soglia della franchigia?
10. Perchè il PD che ha confezionato e votato la norma oggetto del referendum, non ha il coraggio di sostenerla pubblicamente? Personalmente, anche senza ricorrere ai profili di tutela ambientale (peraltro da me pienamente condivisi) ce ne è abbastanza per convincersi che la norma oggetto del referendum altro non è che un "grazie" alle compagnie petrolifere. Il pasticcio è stato fatto ed è stato scoperto; sostenere il No al referendum significa dichiarasi apertamente collusi con quanti traggono un cospicuo vantaggio da una simile porcata. Idem per l'astensione (peraltro legittima, ma non è questo il problema) ».

AGGIORNATO IL 20 APRILE 2016

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